Di luci e di ombre

Luci ed ombre

Di luci e di ombre

Di luci e di ombre 991 683 Oliviero Rossi

UN’APPLICAZIONE DI FOTO VIDEOTERAPIA

Pubblicato sul numero 2 della Rivista “Nuove Arti Terapie”, pag. 12 -16

Oliviero Rossi

 

Questo lavoro presenta una possibile applicazione dell’arteterapia in una seduta di gruppo. In particolare, qui vengono usati una telecamera e alcune foto personali dei partecipanti.

L’intervento, in questo caso, è prevalentemente didattico, ovvero, tende ad illustrare alcune delle fasi del processo videoterapeutico e a suggerire spunti di lavoro.

La “tesi di esistenza” è l’atto cognitivo con il quale prendiamo in considerazione che l’immagine di una foto si riferisce a qualcosa di esistente o esistito: se c’è una foto, qualcosa deve averla prodotta. In fotografia, si può dire che la foto è prodotta a partire dalla luce riflessa dal soggetto, ma qui la luce riflessa dal soggetto diventa il modo in cui la persona che osserva la foto illumina quella situazione. In questo caso, la “tesi di esistenza” è vista in senso fenomenologico: è il mio punto di vista che mi permette di considerare esistente quello che vedo, e di relazionarmi con esso a partire dalla mia percezione.

È il cliente ad offrire il proprio “gioco di luci”, illuminando la scena nel modo in cui ha bisogno di poterla vedere. Lavoriamo su quello che è in luce nella sua esistenza soprattutto per poter contattare quello che è in ombra, ovvero, per poter dare voce a quello che sembra rimanere “fuori fuoco” in un gioco dialettico fra figura e sfondo.

Nel caso presentato è stato possibile lavorare utilizzando delle foto non riguardanti la storia personale del cliente.Ogni fotografia ospita più di quello che si vede: l’inquadratura seleziona una parte di mondo, che non esclude il mondo più ampio “sottinteso” nella fotografia.

Lavoriamo sul “sapere trasversale”, ovvero il contesto emotivo e cognitivo con il quale costruiamo il senso della fotografia e la inseriamo nel mondo più ampio di cui è una inquadratura.

Questo mondo più ampio che esce dai limiti dell’inquadratura fotografica non è detto che corrisponda necessariamente a quello reale, ma è quello ricostruito, ricordato, immaginato o inventato, sollecitato da quello che la fotografia evoca.

Lavoriamo, quindi, su ciò che non si vede nella fotografia ma che sappiamo della realtà.

L’insieme delle foto portate da tutti i partecipanti, creano una biografia artificiale che ciascuno dei partecipanti può indossare. La “ storia di vita di Jaqueline” “nasce” dalla lettura dell’insieme delle foto: può sembrare paradossale ma non è necessario, per il presente lavoro, che ci sia una corrispondenza tra il nome e la persona che indossa quel nome.

T: Allora, J. con barba e baffi, avvicinati alla storia della tua vita (sono le foto di tutti i partecipanti al gruppo).

Prima di tutto è importante notare come la persona si avvicina alle fotografie e sembra che, in questo caso, gran parte delle fotografie siano rivolte al contrario rispetto a come la persona vi si è posta davanti. Può essere importante anche prendere in considerazione il rapporto di lontananza e vicinanza tra la persona e le fotografie a cui si è avvicinato

T.: J. quale è la foto più vicina a te?

J.: Questa

T.: sembra J. senza baffi (la fotografia ritrae il padre di J., è l’unica fotografia realmente appartenente alla persona che sta dando vita a “Jaqueline”.)

J.: ci assomiglio

T.: guarda le altre fotografie…

J: posso.. girarle..

T: per ora muoviti tu intorno alle fotografie e vai a visitarle come se fossero un luogo da esplorare…

È necessario per J. entrare in contatto e permettersi una risonanza emotiva con quelle fotografie in modo da poter operare un “battesimo” delle immagini e riconoscere quelle storie come proprie). Osservandole, visitandole come un luogo, le foto diventano attivatori di narrazione. Il raccontare rende comunicabile la propria esperienza, agli altri e a se stesso; le immagini evocano sensazioni, emozioni, da semplici fotografie diventano elementi di biografia che escono dalla fissità del ricordo per diventare, come erano al momento dello scatto, una parte del movimento o dell’azione nell’ambiente.

(dopo un po’ che J. sta osservando le fotografie)

T: che effetto ti ha fatto esplorare quelle foto?

J.: In tutte c’è qualcosa che mi ci fa avvicinare

T.: Puoi indicarmi cos’è che ti fa avvicinare? Cosa senti che ti appartiene un po’?

J.: Mi appartengono questi occhi azzurri

T.: cosa ti ricordano quegli occhi azzurri?

J.: Mia madre…

T:ok, poi?

J: questa foto qui invece mi ricorda me da piccolo

T.: Quale dei due? (la foto ritrae due bimbi, seduti su un divano, il bimbo più grande tiene abbracciato quello più piccolo)

J.: quello minuscolo, perché ha gli occhi storti e anche io da piccolo avevo gli occhi storti…

T: ok

J: di questa invece mi colpisce il piede che sta in tensione

T.: Ti ricorda un piede in particolare?

J.: il mio di quando sono imbarazzato. Questa invece mi fa ridere(è una foto con 4 bimbi in posa a“colonna”)

T.: Cosa ti fa ridere?

J.: che tutti i bambini hanno la stessa espressione, tranne questo. Mi ricorda quando mi obbligavano a fare le foto da piccolo per ricordo… e questa invece mi ricorda la bellezza di mia madre (è la foto di una donna ) molto bella, questa è…una donna che ha fatto cinema…mia madre non l’ha fatto però… e questa invece è mio padre

T.: ti somiglia moltissimo

J.: eh si, crescendo mi accorgo sempre di più che mi somiglia.

Il terapeuta ora inquadra J. girando il display verso di lui.

T.: guarda qui e metti quella foto vicino al tuo viso… in cosa ti somiglia?

J.: il profilo e il sorriso, anche fisicamente un po’: il tipo di capelli..

T.: cosa lo fa sorridere in quella foto… se tu potessi immaginare quello che lo sta facendo sorridere… cosa ti farebbe piacere immaginare

J.: è in vacanza, a Venezia, e quindi è una situazione piacevole… poi accanto c’è mia madre quindi, penso anche sia contento di questo.

Creando un ponte fra l’immagine di sé e l’immagine del padre, che ha perso quando era molto piccolo, J. può entrare in contatto non solo con le emozioni e le fantasie suscitate dalla fotografia, ma soprattutto può creare una storia, e reintegrare, così, il vuoto nella sua biografia. Terapeuticamente è ovvio tener presente la possibilità – o la mancanza di possibilità- per il cliente di poter ricordare quello che è troppo doloroso aver perso, oppure il dolore di prendere contatto con quello che non si è mai avuto. Nello spazio narrativo evocato, è possibile esplorare le fantasie che J. ha fatto su di lui, sulla sua relazione con la madre, sui sottintesi circa i ruoli genitoriali cristallizzati nella sua visione della realtà, il senso che questi rivestono nella propria storia, in quanto rappresentazione del modo soggettivo d’intendere il mondo.

È sempre importante tener presente la tendenza a chiudere le gestalt inconcluse, ovvero, la necessità tutta umana di concludere un lavoro o chiudere un’esperienza a causa della tensione o squilibrio provocati da una interruzione(effetto Zeigarnik).

Questo è un fenomeno adattativo,sviluppatosi nella filogenesi, in un certo senso, è anche qualcosa che usiamo nel lavoro con la fotografia: dalle visoni parziali di una situazione, favoriamo un processo di caricamento emotivo della situazione fotografata, finchè non comincia a operarsi il completamento. In un primo momento il completamento è direttamente influenzato dal sistema di credenze della persona, credenza su sé, sul mondo, sui legami familiari, le relazioni.

Successivamente cominciamo ad inserire dei piccoli elementi cognitivi/emotivi discrepanti dalla operazione di “completamento ufficiale” strutturatosi nel tempo.

T.: chi ti ha detto che è tua madre quella spalla accanto a tuo padre (la foto ritrae il padre, si vedono solo la spalla e il braccio di una donna accanto a lui)

J.: nessuno… penso, me lo immagino

T.: hai immaginato spesso che tua madre fosse una spalla accanto a tuo padre?

J.: forse è il contrario

T.: in che modo tuo padre era una spalla accanto a tua madre?

J.: perché era lui che lavorava, che portava i soldi, che ha comprato la casa…

T.: e una spalla fa tutte queste cose?…

J: in questo caso sì..

T: a teatro la spalla come si chiama?

J.: è il coprotagonista

T.: beh, è quello che lancia le battute all’attore principale no?… permette all’attore principale di fare lo spettacolo

J.: Si (sorride)

T.: che stai provando?

J.: è curioso… anche io forse cerco delle persone che mi permettano di fare il mio spettacolo… cerco un co-protagonista

T.: ok, lascia andare la foto e guarda nel display… che cosa ti piacerebbe offrirti lavorando con queste fotografie?

A questo punto il lavoro procede con una sorta di inversione di accento: mentre prima erano le fotografie ad attivare e muovere le emozioni, adesso è quello che il cliente sa di se stesso che comincia a inglobare quelle foto. Il mondo cognitivo ed emotivo comincia a riempire lo spazio fra una foto e l’altra in una sorta di ricostruzione “semistorica”: inizia a costruirsi anche quello che in un primo momento sembra impossibile ricordare o immaginare. Ora è possibile spostare l’attenzione dalle fotografie al “mondo interno” di J., creando un dialogo fra l’io che osserva e il se stesso immagine.

In questo spazio creato dalla dicotomia “io-me” è possibile favorire l’emergere e la presa di contatto con un bisogno/desiderio che propone una forma ed una“direzione” al lavoro, dopo che l’esplorazione precedente ha fatto emergere il “contesto”, “i pezzi di mondo” che il cliente conosce o che immagina circa la storia raccontata dall’insieme di foto.

J.: di sorprendermi… la sorpresa

T.: la sorpresa che ti auguri quale è?

J.: di sorprendermi sempre

T.: il fatto è che sorprendersi sempre è quasi noioso…. Dove è la sorpresa se uno si sorprende sempre?

J.: il più possibile, sorprendere me stesso e sorprendere anche gli altri

T.: ok, saluta..

J.: ciao J.

(il terapeuta inquadra adesso le fotografie)

T.: allora, in quale di queste foto c’è la sorpresa?

È necessario poter passare fluidamente fra i vari livelli di testo e sotto-testo evocati: il testo è quello che ricordo ufficialmente della situazione mostrata dalla fotografia e quello che so di quella situazione, il sottotesto è quello che emerge durante il lavoro di confronto con quella fotografia.

In genere, quello che una persona cerca è qualcosa che già è presente nel suo orizzonte emotivo-cognitivo. Quando si va a caccia, si va con fucile o canna da pesca a seconda della preda che si cerca. Ad un livello, è saggio presumere che quello che si sta cercando è già nell’orizzonte visivo. La mano, prima ancora che afferri l’oggetto, già assume la forma dell’oggetto. In qualche modo in questa operazione quasi-mimetica ci inseriamo a 2 livelli:

– accompagnamo il processo intenzionale del soggetto

– creiamo un aggancio-alleanza che permetta di ampliare l’orizzonte esplorativo da una posizione che renda possibile prendere in considerazione diversi punti di vista.

Questa alleanza è necessaria perchè permette di attraversare la frustrazione evocata dalla situazione inconclusa. Emozioni, pensieri, sentimenti ecc. che, se sono “fuori inquadratura”, sono anche fuori della portata di quello che normalmente il cliente considera far parte di se stesso.

È importante sottolineare lo spostamento della responsabilità dal cliente, che cerca una risposta dal terapeuta (sorprendimi), al terapeuta che gliela rimanda chiedendogli “dove puoi trovare la sorpresa?” come operazione di responsabilizzazione del cliente sul suo fare.

Inoltre, per poter lavorare sullo sfondo è necessario far emergere qualcosa in figura. In questo modo prepariamo il terreno per un eventuale lavoro sulle polarità e, in ogni caso, per poter esplorare lo sfondo che sorregge ciò che è in primo piano.

J.: forse in questa (indicando la foto con i due bimbi in cui il bambino più grande abbraccia quello più piccolo)

T.: prendila e mettila vicino a te (di nuovo inquadra J. e la foto)… che effetto ti fa?

J: …mi fa tenerezza però anche un po’ paura

T.: che cosa ti fa tenerezza e cosa un po’ paura?

J.: tenerezza lo sguardo del bambino neonato..e un po’ paura l’abbraccio un po’ cattivo dei bambini piccoli… come quando hanno i gatti da piccoli e gli fanno le peggio torture

T.: ok… lascia le foto.. e ricrea la situazione qua con l’aiuto del gruppo

J. sceglie due persone, chiedendo loro se hanno voglia di aiutarlo a rappresentare la scena.

J.: tu sei il bambino cattivo che gioca con il gatto… mettiti seduto qui comodo e tu in mezzo alle sue gambe e se ce la fai imita l’abbraccio della fotografia

T.: manca il gatto… prendi anche il gatto (J.sceglie una persona)

J: eh, il gatto però non so dove metterlo..

T: bè guarda la fotografia e trova dove è evidente che vuoi metterlo

J.: tipo..che fa le fusa..su una gamba sua (sul bambino che viene abbracciato) appoggiato come fanno i gatti..così. dovresti fare le fusa!

T.: poiché abbiamo scelto di lavorare con le immagini fisse non c’è bisogno di muovere tanto… che effetto ti fa (a J.)vedere la tua foto in carne ed ossa?

J.: è un po’ rigida, un po’ troppo rigida

T.: metti quella fotografia vicino… e davanti a loro in modo che tu possa vedere sia la fotografia che la scultura che hai fatto… noti differenze?

J.: sì

T: cosa?

J.: ecco forse il suo sguardo ora è molto vicino a quello del bambino…

T: come mai?

J: è un po’ sornione non sai fino a che punto sta abbracciandolo oppure sta aspettando di fargli un dispetto

T.: senti ma nella foto cos’altro c’è? come mai quei due bambini stanno in quella posizione?… che cosa è che permette al bambino più grande di tenere il bambino più piccolo?

J.:ah… che è appoggiato

T.:si,allora, prendi anche la poltrona, le poltrone..

(sceglie due persone, le sistema dietro i “bambini” facendoli appoggiare)

Ciò che viene ricostruito, in effetti, non è l’immagine rappresentata in fotografia, quanto il vissuto e le fantasie evocate dalla rappresentazione interna dell’immagine.

Il continuo confronto fra le polarità “quello che osservo” e “ quello che immagino” permette di creare una storia che pur non essendo stata vissuta personalmente, appartiene profondamente a chi la racconta.

Qui creiamo una polarità fra la foto come è e l’immagine interna evocata.

Possiamo dare spazio alla discrepanza tra la foto e la scena immaginaria che poggia su quella foto: ad es. il gatto.

Nella drammatizzazione gestaltica di gruppo, diamo la possibilità di dar vita a qualunque elemento che il paziente descrive nel suo racconto.

Lo sfondo comincia a caricarsi ed attivarsi fino al punto da poter diventare figura. L’immagine che sembra prendere corpo per J. è qualcosa che rimanda a una serie di abbracci, appoggi, tenerezze, soltanto, sembra che questo sia possibile tra cuccioli animali o bambini. Ma chi sostiene quei piccoli esseri? Il terapeuta invita a notare quello che manca, risulta quasi ovvio che manchi un appoggio solido. Per il terapeuta diventa un ovvio significativo in quanto salta agli occhi che la scultura che J. realizza ha una differenza importante rispetto la foto da cui si genera. I personaggi in carne e ossa non hanno l’appoggio che invece hanno i bimbi nella foto. Mancanza di appoggio che probabilmente rispecchia un vissuto di scarso sostegno dall’ambiente. L’invito a notare quello che manca porta J. a notare finalmente il divano (l’appoggio che esiste nella fotografia ed, evidentemente, non nel suo vissuto). Il terapeuta sceglie di portarte nella rappresentazione l’elemento divano, cioè un elemento di forte sostegno anche se inanimato. Probabilmente prima o poi potrebbe tornare utile.

L’inserimento degli elementi presenti nella fotografia scelta da J. per iniziare il lavoro amplia il campo percettivo e quindi il significato della storia che viene costruita, ospitando ed integrando di volta in volta elementi delle altre immagini.

J.: ecco, ora è un po’ meno rigida

T.: Che effetto ti fa?

J.: mi sembra una foto di famiglia cosi… inquietante!!

T.: si, esattamente una foto di famiglia, ma quello che hai costruito in che modo è differente dalla fotografia che hai lì davanti?…

J.: manca un po’ di purezza, non lo so

T.: purezza? quello che hai messo li davanti che cosa ha in più?… se fosse una foto di famiglia chi sarebbero i personaggi?

J.: il padre, la madre e dietro i figli

T.: prendi la foto in bianco e nero (quella con i quattro bambini in posa) che effetto ti faceva quella foto quando l’hai vista?

J.: mi faceva sorridere, perchè ci sono questi tre bambini che hanno lo stesso sorriso però un po’ finto perché sono in posa e invece quello sopra non ride

T.: Ok scegli un’altra persona per fare quel bambino che sta sopra e mettila sopra a tutto il gruppo… e appoggia questa fotografia vicino a quell’altra

J. fa sistemare la persona alle spalle del gruppo

Il terapeuta inizia a prendere gli elementi separati, significativi ma contattati isolatamente, riunendoli in un campo unico per vedere cosa emerge di nuovo, favorendo la riorganizzazione di una gestalt. Cambiare i dinamismi all’interno nel campo crea un nuovo campo organizzato in modo narrativamente diverso dall’interazione dei singoli elementi. Anche se le foto sono appartenenti agli altri, è lui che le organizza scegliendo il filo con il quale dargli un senso.

T.:guarda la foto.. ti va bene come lo hai messo?

J: sì, sì

T: Adesso che effetto ti fa?

J.: ancora più inquietante

È importante seguire l’attivazione emotiva, è il segnale che qualcosa comincia ad organizzarsi. L’ emozione comincia a dar forma a ricordi, considerazioni o fantasie.

T.: che cosa è che ti inquieta di più adesso?

J.: la figura sopra

T.: come mai?

J.: sembra un fantasma

T.:sembra un fantasma.. un fantasma di chi?… i fantasmi non si negano a nessuno,ognuno ha il suo personale… il tuo quale è?

J.: mio padre

T.: tuo padre. prendi la foto di tuo padre e mettila in cima alle altre due foto…guarda le tre foto adesso… che effetto ti fa?

Il puzzle di foto a terra ospita quello che si sta evocando in J. e si trasforma nel teatro familiare. Continua l’operazione di ponte emozionale degli elementi visivi delle fotografie nei frammenti d’immagine, di ricordo.

J.: …….una famiglia allargata

T.: che cos è che rende allargata quella famiglia?

J.: che ci sono tanti bambini con un padre soltanto

T.:…e una spalla di madre

J.: esatto

T.:bene, mettiamo un pezzo di mamma nella scultura? Mi sembra che manchi no?… però attento cerca di sistemare la spalla della mamma vicino al padre.. è ovvio che non puoi fare a fette la persona, però prova a vedere…

J. sceglie una persona e la sistema nella “scultura”

T.: che effetto ti fa adesso?

J.: adesso è una famiglia. Un po’ strana ma è una famiglia

T.: una famiglia che ti sorprende o una famiglia che conosci bene?

J.:no mi soprende

T.: in quanto?

J.: è una famiglia numerosa

T.: e che puoi dire a tuo padre a questo punto?… papà questa è la famiglia…

J.: che forse avrei voluto

T.: diglielo… e digli anche come mai è proprio questa la famiglia che avresti voluto

J.: perché mi avrebbe fatto piacere avere tanti fratelli

T.: mi avrebbe fatto piacere avere tanti fratelli… mi avrebbe fatto piacere poter contare sulla spalla di persone che mi vogliono bene, è così?

J.: si

A questo punto la storia diventa uno “spaccato” dell’anima di J., o meglio della persona che lavorando su di sé, ha reso “propria storia” quello che era un insieme di foto di persone sconosciute.

T.: c’è qualche altra cosa che vuoi aggiungere e dire a tuo padre?

J.: magari un sorriso..lo potresti fare!! (ride rivolgerndosi alla persona che interpreta il padre)

T.: (puntando la telecamera su J.) Va bene J. scelgo di fermarmi qua perché altrimenti varchiamo i limiti della simulata didattica. Questo inizio di lavoro che effetto ti ha fatto e che cosa ti ha lasciato?

J.: mi ha sopreso

È importante per il terapeuta ricordare e tener presente che è esattamente la richiesta iniziale con la quale J. ha iniziato il lavoro. È il segnale di uno step raggiunto, ed è essenziale dare il tempo al cliente di esplorarlo prima di passare al successivo.

T.: in quanto?

J.: in quanto ero abbastanza divertito di questa cosa e poi.invece…

T.: poi invece?

J.: mi manda un po’ di tristezza e un po’ di malinconia

T.: ti manda un po’ di tristezza e di malinconia… e insieme alla tristezza e alla malinconia, che cosa puoi prendere di buono e utile per te?

J.: che la posso fare io una famiglia numerosa

T.: ah! dillo a tuo padre

(J prende la fotografia del padre e guardandolo si rivolge a lui.

J.: papà, se non muoio prima come sei morto te potrò farla io una famiglia numerosa

T.:… ora prova ad entrare nella scultura.

L’inserimento di J. nella “scultura” ha il senso di promuovere l’ integrazione di quelle parti di sé dalle quali si era funzionalmente distanziato durante il lavoro della loro rappresentazione

J.: mi metto accanto al gatto

T.:…che effetto fa?

J.: strano

T: cioè?

J: non mio

T.: scusa non cercavi una sorpresa… che effetto fa stare in una cosa che non senti tua ma che hai costruito tu?

Il terapeuta, alla riluttanza di J., ridefinisce il suo termine “strano”come una variante della sorpresa, effetto da lui auspicato all’inizio del lavoro. Questo permette di facilitare l’attraversamento degli eventuali disagi che il cliente incontra nell’andare avanti.

J.: scomodo

T.: cosa è che la rende scomoda?

J.: la posizione che ho scelto

T.: e perché hai scelto una posizione scomoda?

J.: non lo so…per imbarazzo

T.: e tu quando sei imbarazzato scegli una posizione scomoda?… prendi la foto dei due bambini… guardala… come stanno quei due bambini?

J.: comodi

T.: comodi… loro sono due bambini e si mettono comodi…

J.: io sono adulto e mi metto scomodo!

T.: e come mai?…cosa potresti imparare da quella fotografia? la più piccola delle cose che in questo momento ti accorgi potresti prendere di buono e utile per te … cara foto mi insegni… cara foto, forse ti ho preso per imparare, un po’ con sopresa,…

Il terapeuta propone alcune frasi da far completare al cliente allo scopo di fornire un sostegno all’espressione di contenuti affettivi intensi.

J.: a stare comodo

T.: a stare comodo quando?

J.: quando sono imbarazzato

T.: lo vedi imbarazzato quel bambino?

J.: no

T.: che cosa sta facendo quel bambino?

J.: sta appoggiato

T.: soltanto?… quale dei due sta appoggiato?

J.: entrambi… lui sta appoggiato alla poltrona e lui all’altro bambino

T.: e c’è una qualità differente tra i due appoggi?

J.: si, il bambino piccolo è tranquillo

A questo punto è importante prendere in considerazione l’imbarazzo come la copertura che protegge dal contatto con dei vissuti che in qualche modo J. percepisce come pericolosi. Ora il gioco di confronto fra il vissuto che lui prova e la foto da cui è nata la scultura cambia il processo del lavoro: da cognitivo-emozionale passa ad un confronto che poggia su vissuti fisici, posturali, emozioni incarnate. La storia evocata dalla fotografia comincia a mutare di segno affettivo.

T.: e come mai?

J.: perché è abbracciato

T.: perché è abbracciato… e il bambino grande?

J.: il bambino grande è divertito

T: divertito, soltanto?

J: e sereno!

T: sembrerebbe… sei tu che guardi la foto, dì quello che è nella tua testa…

J: sì, è sereno!

T: e cosa lo rende sereno?

J.: sia abbracciare questo bambino piccolo sia penso… la persona che gli fa la foto!

T.:può darsi. Secondo te chi gli sta facendo la foto?

J.: il papà

T.: papà, io come quel bambino vorrei…

J.: essere sereno

T.: quando?

J.: quando mi appoggio agli altri

T.: no, quel bambino non si sta appoggiando… che sta facendo?

In questo momento è importante per J prendere contatto con quello che evidentemente è presente nella foto ma che sembra incapace di nominare, qualcosa che non ha avuto,ma che finalmente appare consapevolmente come mancanza e quindi verbalizzabile. In questo modo sta fornendo continuità a qualcosa che la morte del padre ha interrotto.

J.: quando abbraccio

T.: chi? pinco pallino?

J.: una persona a cui voglio bene

T.: per esempio un bambino… come forse hai fatto tu papà quando…

J.: quando ero piccolino

T.:certo! che stai provando?

J.: un po’ di dispiacere

T.: dispiacere per?

J.: in quanto non mi ricordo quando mi abbracciava quando ero piccolo… ero troppo piccolo

T.: come quel bambino nella foto?

J.: più o meno

T.:sai, a volte può essere un piacere… fare qualcosa di assolutamente non straordinario, una cosa che si ripete nel tempo… essere figli, diventare padri, diventare nonni, avere nipoti..e a seconda del credo religioso si può ricominciare!… che cosa stai provando in questo momento?

J.: tranquillità

Il vissuto emotivo mette in contatto con una reale chiusura dell’esperienza. Il desiderio iniziale di sorpresa si trasforma in una tranquillità ottenuta, che può fare a meno di sorprese.

Il presente lavoro poggiava su dei frammenti fotografici che, nell’operazione narrativa operata da J., hanno preso la forma delle interruzioni nei suoi rapporti significativi.

In un certo senso, abbiamo lavorato con tutto quello che non si vede nella fotografia ma è nel vissuto personale e percettivo del mondo della persona che ha dato vita a J. L’atto di percezione della foto diventa un atto quasi percettivo nella misura in cui percepiamo come realtà una rappresentazione di quella realtà. Nel lavoro presentato abbiamo ampliato e dato corpo a quel quasi percepire.

Abbiamo dato forma concreta, reale e qui ed ora a quella che era la “rappresentazione” cognitiva, emotiva, narrativa e mentale di quelle fotografie. J., la persona che le ha “battezzate” come la biografia di J., ha potuto riprendersi qualcosa che nessuna fotografia avrebbe potuto mai dargli: il contatto, l’odore, le sensazioni, un gruppo familiare che era impossibile fotografare perchè non era mai esistito. In questo modo J. è potuto entrare in relazione con un filo interrotto nella propria storia personale.